Bologna Marzo ’77…Fatti Nostri

Alcuni estratti dalla Postfazione a cura del Laboratorio Crash!

Fatti nostri va inserito in un contesto storico preciso di cui vanno riconsiderati alcuni aspetti fondamentali. In primo luogo, la valorizzazione del conflitto, la comprensione sicura del fatto che il cambiamento avviene attraverso lo scontro tra ipotesi e pratiche antagoniste e che la lotta investe tutti i campi, l’intera esperienza di vita e vale se mette mano ad una “rivoluzione antropologica”, condizione di quella politica, in modo tale che il cambiamento radicale investa sia i rapporti di forza tra le classi, sia le relazioni sociali e umane. Pensiamo, poi, alla rilettura di Marx e dei conflitti di classe fatta dall’operaismo, al femminismo, alla proliferazione di nuovi linguaggi e modi di trasmissione relativamente all’arte, ai saperi, alla comunicazione, alle innovazioni in campo politico. E ancora: alla proliferazione di case editrici, di librerie, di centri sociali, di spazi nelle scuole e nelle università in cui sperimentare saperi e pratiche di vita alternative.
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A scrivere oggi un libro di …fatti nostri… potrebbero essere le generazioni di studenti che dopo il ’77 si sono avvicendati nell’università più antica e cara d’Europa. Lo sfruttamento di bottegai, di affittacamere, del lavoro precario, al nero, degli studenti rimane una costante determinante per la ricchezza di questa città’ . Oppure potrebbero scriverlo gli immigrati, a migliaia giunti in questi trent’anni, anch’essi discriminati e sfruttati, spessissimo privi di servizi e di una casa; oppure, ancora, quanti, nei quartieri, specialmente giovani proletari, sono presi nella morsa della precarietà della vita, senza reddito e senza grandi prospettive.
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Ad invertire il processo di costante subordinazione alle logiche della valorizzazione, ci provò, con generosità , impegno, ma anche con sgomento e angoscia, il movimento del ’77. In una realtà repressiva giunta al suo apice, stretti dai tutori dell'”ordine” che usavano con sempre più disinvoltura le armi da fuoco nei cortei, e dai fascisti, che continuavano indisturbati a mettere bombe sui treni e a ammazzare i compagni, i “nuovi” proletari resistevano. Fu l’ultimo assalto al cielo?
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La nascita della fabbrica diffusa si dà per il doppio processo di fuga dalla fabbrica-caserma da parte dell’operaio-massa in lotta e dall’uso capitalistico della crisi finalizzata alla ristrutturazione della base produttiva. In questa situazione si creano le condizioni per una ricomposizione di classe ad un livello più alto, con la potenzialità di estendere all’intera società l’antagonismo, fin dentro la sfera della realizzazione del capitale, nella circolazione. Dunque, gigantesca produttività della cooperazione sociale, all’interno di cui, tuttavia, il tentativo di una parte della forza lavoro di “fuggire” dalla valorizzazione e dallo sfruttamento risulterà essere una chimera e un’illusione.
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Le lotte dell’operaio massa negli anni sessanta e le pratiche che esse favorirono, caratterizzate dal ritiro della delega ai politici di professione e dalla democrazia diretta, misero seriamente in crisi l’ architettura del potere. Le lotte autorganizzate nelle fabbriche – attraverso scioperi a “gatto selvaggio”, sabotaggi alla catena, picchetti, ecc. – aventi obiettivi economici e politici – più salario, meno orario, rifiuto del lavoro – opposti a quelli delle burocrazie sindacali, in una parola, la nascita e lo sviluppo dell’autonomia operaia e il suo continuo acquisto di egemonia su ampi strati e settori proletari, tutto questo mise in campo una profonda contestazione della legittimità dello stato fino a configurarsi come crisi. La distanza tra la nuova composizione tecnica e la “razionalità” delle fabbriche del nord non poteva essere più grande. L’operaio massa aveva partecipato al grande movimento delle occupazioni delle terre degli anni ’50; proveniente dal sud Italia che ha sempre conosciuto la promessa dello sviluppo e mai la sua realizzazione, quando giunge nei luoghi dove materialmente si produce la ricchezza sociale non accetta la disciplina di fabbrica, né alcun controllo politico o sindacale, ma mette in atto il rifiuto del lavoro di merda a cui è sottoposto. “Rude razza pagana”, come fu chiamata, entra in rotta di collisione con l’operaio di mestiere, il vero riferimento delle istituzioni storiche del movimento operaio. E infatti il suo è il tempo non della produzione, ma della lotta, dell’insubordinazione di chi non delega perchè sa che il suo è un linguaggio e una visione delle cose totalmente differente dalla logica produttivistica del padrone, del sindacato, del partito. L’operaio massa non sa che farsene del socialismo di stato, della politica dei sacrifici, dell’etica del lavoro. Oppone il rifiuto del lavoro perchè è cosciente che così sabota il profitto, non vuole lavorare otto ore legato alla catena, tuttavia vuole godere dei vantaggi dello sviluppo, vuole tutto e subito, senza mediazioni. E soprattutto non vuole riprodursi come forza lavoro fordista. La sua estraneità alle varie articolazioni del potere dipende da questo rifiuto dell’alienazione mentale e della fatica fisica. Non è disposto a mediare perchè in gioco è la sua vita. La composizione che culmina nel ’77 è affatto diversa. Ha visto la parabola del keynesismo abbassarsi man mano, ha vissuto sulla propria pelle la fine del socialismo del capitale, ha percepito l’avvento del liberismo, il suo nichilismo, il suo principio di esclusione generalizzato. Mentre i soggetti del ’77 vedono delinearsi la nuova realtà e accendono il conflitto, la sinistra storica continua ad insistere sulla politica dei “sacrifici” e sul compromesso storico finalizzati ad una ristrutturazione del keynesismo: almeno, questo afferma nel suo discorso pubblico.
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Il Pci poteva sì riuscire a impedire la saldatura tra l’operaio massa e la nuova composizione di classe “non garantita”: ma ciò non poteva essere considerato come acquisito una volta per tutte. All’interno di questo quadro, apparentemente senza uscita, il Pci fece la sua scelta che consisteva nella repressione vasta e profonda del movimento antagonista. Dal lato politico, Lama e Berlinguer accettarono in pieno la politica dei “sacrifici” (tra i quali c’erano flessibilità e mobilità per la forza lavoro e tagli alla “scala mobile”). Si trattava di un uso politico della crisi, vista come l’unica via di uscita, che contemporaneamente avrebbe, determinando un processo ristrutturativo delle imprese e delle strategie del capitale, scompaginato la composizione dell’operaio massa e dato forza al percorso della precarizzazione della forza lavoro. Questa strategia veniva elaborata tenendo presenti una serie di variabili in campo: il futuro sviluppo del capitale a livello internazionale, la crisi ormai irreversibile dei Paesi socialisti (Berlinguer aveva parlato della “fine della forza propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre”), l’evoluzione della realtà bipolare Usa/Urss. La classe dirigente del Pci pensava anche alla eventualità della fine della forza propulsiva del keynesismo? E’ certo che il liberismo dava già segnali di presa della realtà ; il Pci, rimane innegabile che si preparava, seguendo la tradizione togliattiana, a ripristinare un ferreo controllo sulla classe, per potere avere campo libero per affrontare, quale che fossero le nuove situazioni interne e internazionali, il nuovo corso.
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Farsi Stato e reprimere duramente il movimento del ’77 si inserisce in questa complessa partita. I tentativi di controbattere il movimento sul lato dell’analisi, erano stati fatti e culminarono, lo vedremo fra poco, nell’operazione condotta da Asor Rosa. Tentativi che fallirono. Il movimento aveva elaborato al suo interno potenti “armi della critica” attraverso la rivisitazione della storia del movimento comunista del Novecento e del pensiero di Marx. L’operaismo era un’arma formidabile, il leninismo rivisto dell’organizzazioni (avanguardie non più esterne alla classe, ma interne alle lotte), avrebbe lasciato, con lo scioglimento di Potere Operaio e Lotta Continua, poi spazio alle forme più conseguenti della democrazia diretta; più in generale l’intelligenza, la forza creativa, l’innovazione messe in campo avevano un’enorme forza di penetrazione e di diffusione. Se lo stato vedeva nel movimento un formidabile avversario sul lato della legittimità e pertanto decise di spostare il confronto sul piano militare dove era oggettivamente più forte, il Pci, che vedeva nel movimento un nemico tanto più temibile quanto più questo attaccava la sua tradizione che consisteva in un marxismo scolastico e una pratica piattamente riformista, decise per la repressione. Due visioni inconciliabili si scontravano: stalinismo contro democrazia diretta; marxismo terzointernazionalista contro operaismo; etica del lavoro (il capitale, i sindacati ed il socialismo reale, dunque) e rifiuto del lavoro capitalistico (sganciamento del salario dalla produttività nella progettazione di una società che trova il suo principio costitutivo non nel profitto ma in un rapporto positivo con la natura e con gli esseri umani). Come dopo la Liberazione, la liquidazione del movimento partigiano costituì la precondizione per il controllo del partito sulla classe, anche se questo significava sacrificare le forze che avrebbero potuto innestare un processo di profondo rinnovamento della società , così nel 1977 la liquidazione del movimento antagonista costituiva la precondizione della pace sociale anche se ciò doveva significare la criminalizzazione di un’intera generazione e del suo immenso patrimonio di intelligenza, di innovazione e di generosità.
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